
30 anni fa moriva Alexsander Langer
È tempo di pensare alla costituzione di Corpi civili di pace europei
Il tratto che distingueva il suo fare politica stava nella sua capacità di mettere in contatto e comunicazione persone e gruppi distanti per alimentare e promuovere campagne al tempo stesso locali e globali, fondate tuttavia su relazioni umane che non si limitassero a una composizione di appartenenze. Per il modo in cui la utilizzava, la sua agendina prefigurava un programma efficace di elaborazione di nuove idee e di resistenza.
Sono tante le esperienze di trasformazione che ha promosso e che auspicava con lungimiranza. Mi è capitato più volte di proporre a ragazze e ragazzi alcuni suoi scritti e sempre mi sono accorto come la qualità del suo pensiero riesca ancora oggi ad andare oltre alle occasioni contingenti del suo scrivere, proiettando nel futuro una radicalità utopica, visionaria e concretissima al tempo stesso.
Alexander Langer ha affrontato in modo del tutto originale tre temi ancora di grande attualità: la conversione ecologica, la convivenza interetnica e la scelta della nonviolenza e del dialogo come forma di prevenzione e opposizione assoluta a ogni guerra.PUBBLICITÀ.
La conversione ecologica
Langer aveva una grande attenzione per le parole. Anche se scriveva spesso di corsa, nei suoi articoli e interventi c’è sempre una grande cura del linguaggio. Per primo usò e propose il concetto di conversione ecologica, che non era per lui riforma, riconversione e nemmeno rivoluzione. Non si accontentava dell’ambiguo sviluppo sostenibile, ossimoro con cui sono spesso giustificati i peggiori compromessi. La conversione ecologica proposta da Langer riguardava piuttosto una trasformazione del contesto agricolo, produttivo, abitativo e sociale che fosse accompagnata e sostenuta da un cambiamento della nostra coscienza individuale e da una nuova relazione con il pianeta e tutte le forme di vita che lo abitano.
Affermare che “la transizione ecologica non si potrà realizzare fin quando non diventerà socialmente desiderabile” poneva e pone al centro dell’impegno politico la costruzione di una cultura in grado di sostenere una trasformazione profonda dei pensieri e dei comportamenti individuali e collettivi, che necessariamente deve partire dal basso.
“Potranno aiutare a cambiare strada le mille piccole conversioni e riconciliazioni”, spiegava in un convegno del 1994 ad Assisi, “i mille piccoli digiuni e disarmi, le mille piccole scelte alternative, che non attendono il via dal ponte di comando né rimandano ad improbabili vittorie finali l’impresa della ricostruzione”.
“Perché ci sia un futuro ecologicamente compatibile”, precisava, “è necessaria una conversione ecologica della produzione, dei consumi, dell’organizzazione sociale, del territorio e della vita quotidiana. (…) Bisogna riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo) attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza). Un vero ‘regresso’ rispetto al motto olimpico del più veloce, più alto, più forte”, da trasformare in “più lentamente, più profondamente, più dolcemente e soavemente”.
Un decalogo per la convivenza
“Dell’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera. Occorrono ‘traditori della compattezza etnica’, ma non ‘transfughi’”. Così recita il titolo dell’ottavo punto dello scritto più nitido e lungimirante che ci ha lasciato Langer. Nelle ultime stagioni della sua vita ha infatti lavorato a un testo che ha voluto intitolare: Tentativo di decalogo per una convivenza interetnica. Consiglio di leggerlo o rileggerlo perché, nell’esporre i necessari passi per costruire un’arte del convivere capace di contrastare il ritorno di etnocentrismi sempre più aggressivi, parte sempre da esempi concreti, ancorati a esperienze vissute da minoranze illuminate, da azioni di donne e uomini che lui riteneva capaci di comportarsi da “piante pioniere”, in grado cioè di crescere e moltiplicarsi dissodando il terreno della convivenza nelle nostre città, per renderlo più fertile e abitabile.
Negli anni novanta, nel pieno della mattanza genocida in Bosnia, con l’assedio di Sarajevo che durava da più di tre anni, Langer si è trovato a doversi confrontare con il nodo, forse impossibile da sciogliere, del cercare modi per conciliare la difesa degli aggrediti e degli inermi con il rifiuto di ogni tipo di guerra, in coerenza con la scelta assoluta della nonviolenza.
Il suo modo di reagire con grande sofferenza alle contraddizioni poste da una guerra sempre più cruenta, che sembrava non finire mai, fu di incessante impegno nel creare occasioni e contesti per mettere in relazione coloro che, nei campi contrapposti, rifiutavano la logica della guerra e della soppressione del nemico. Le tante lacerazioni irrisolte, che ha vissuto sulla sua pelle in quelle stagioni, hanno certamente contribuito alla sua drammatica scelta finale.
Eppure, anche in quel drammatico frangente, si è speso con intelligenza nell’elaborare la proposta di un’istituzione che oggi appare ancora più necessaria: la creazione di corpi civili di pace europei che arrivò a essere presentata al parlamento europeo, come possibilità concreta di dare vita al progetto “semplicissimo e immenso, di fare da ponte tra le parti in lotta”, come ricorda Goffredo Fofi nell’introduzione all’ultima edizione di Il viaggiatore leggero (Sellerio 2011), la più organica raccolta di scritti di Langer.
Nelle note autobiografiche del 1986, intitolate Minima personalia, Langer racconta che da piccolo un giorno domandò perché suo padre non andasse in chiesa. “Mia madre mi spiega che mio padre è di origine ebraica, ma che ‘non conta tanto in che cosa si crede, ma come si vive’”.
La ricerca di un’assoluta coerenza tra il come vivere e in cosa credere è la tensione che ha animato e alimentato tutta la vita di Langer. Per questo credo che trent’anni fa, nelle stagioni successive alla sua morte prematura, per reagire allo smarrimento e al grande vuoto lasciato dal compagno di tante lotte e iniziative, un gruppo di amiche, amici e collaboratori scelse di istituire un premio a suo nome, che in qualche modo gli somigliasse.
Essendo impossibile raccogliere personalmente l’eredità di una vita così estrema per coerenza e radicalità, quel gruppo ritenne che fosse significativo cercare ovunque donne, uomini o piccoli gruppi che incarnassero nel loro operare modi concreti di opporsi ai mali del mondo.
Un modo, mi viene oggi da pensare, di continuare la compilazione della sua agendina, colma di persone in carne e ossa da far conoscere tra loro e mettere in comunicazione per darsi coraggio, perché essere individualmente degli hoffnungsträger, dei portatori di speranza, è impresa che può diventare insostenibile.
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